Incarichi dirigenziali

Reiterazione dei contratti a termine a maglie strette

Di Michele Mavino

La sentenza in esame affronta un tema di grande rilievo per il pubblico impiego privatizzato e, in particolare, per il sistema degli incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni ai sensi dell’art. 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001. La Suprema Corte chiarisce in modo puntuale il perimetro di legittimità di tali incarichi, i limiti al loro rinnovo e le conseguenze derivanti dall’eventuale abuso, offrendo un’interpretazione che tiene insieme il diritto interno, i principi costituzionali e le esigenze di conformità al diritto dell’Unione europea.

Il caso origina dall’azione di un dirigente esterno che, tra il 2006 e il 2015, aveva ricoperto incarichi a tempo determinato dapprima presso l’ICRAM e successivamente presso ISPRA. L’interessato lamentava la nullità dei termini apposti ai vari contratti, chiedendo la conversione a tempo indeterminato o, in subordine, il risarcimento del danno per abuso nella reiterazione. Inoltre, rivendicava differenze retributive sostenendo di aver svolto funzioni di direttore generale, chiedendone il riconoscimento formale e denunciando una discriminazione per la mancata ammissione a una procedura selettiva interna.

La Corte d’Appello di Roma aveva respinto integralmente le domande, ritenendo legittima la reiterazione degli incarichi e infondate le ulteriori pretese.

La Suprema Corte accoglie i primi due motivi del ricorso, affermando principi di diritto destinati ad avere rilevanti riflessi pratici.

In primo luogo, viene ribadito che la disciplina dell’art. 19, comma 6, costituisce normativa speciale rispetto alla disciplina generale sui contratti a termine (d.lgs. 368/2001, poi d.lgs. 81/2015). Essa regola compiutamente la forma, la durata, le percentuali e le condizioni per il conferimento degli incarichi dirigenziali a termine, derogando al regime ordinario e non essendo con esso compatibile.

Tuttavia, proprio in quanto speciale, tale disciplina deve essere interpretata alla luce della clausola 5 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, che mira a prevenire l’abuso derivante da reiterazioni successive di rapporti a termine, e nel rispetto del principio costituzionale dell’accesso al pubblico impiego tramite concorso.

La Cassazione afferma con nettezza che i limiti temporali di tre anni (per gli incarichi di direzione generale) e cinque anni (per gli altri incarichi dirigenziali) sono vincolanti e non possono essere superati neanche attraverso l’attribuzione di incarichi differenti, qualora questi ultimi siano comunque funzionali all’attività ordinaria dell’ente.
Un’eventuale successione di incarichi che, pur formalmente diversi, serva a coprire esigenze stabili e permanenti, è da considerarsi abusiva e comporta il diritto al risarcimento del danno “eurounitario”, quantificato secondo i criteri di cui all’art. 32, comma 5, della legge 183/2010.

Unica eccezione ammessa riguarda il conferimento di un nuovo incarico di natura straordinaria o eccezionale, qualitativamente diverso dal precedente e giustificato da esigenze contingenti e non ordinarie.

Accesso alle selezioni e non comparabilità tra dirigenti interni ed esterni

La Corte rigetta invece le doglianze del ricorrente circa l’esclusione dalla selezione per incarichi dirigenziali di prima fascia. Non sussiste violazione del principio di non discriminazione (clausola 4 dell’Accordo quadro), poiché le situazioni dei dirigenti di ruolo e di quelli assunti ai sensi dell’art. 19, co. 6, non sono comparabili.

Il dirigente a tempo determinato, infatti, è chiamato a svolgere funzioni temporanee e non può pretendere di accedere a posizioni stabili e ordinarie senza aver superato il concorso pubblico. Diversamente, si svuoterebbe la ratio dell’istituto e si determinerebbe un’inammissibile elusione dell’art. 97 Cost.

Funzioni di direttore generale e differenze retributive

La Suprema Corte respinge anche la domanda relativa alle differenze retributive per lo svolgimento di funzioni di direttore generale. La semplice assunzione di compiti più ampi o complessi non è sufficiente a fondare un diritto economico: occorre che l’ufficio sia formalmente qualificato come “direzione generale” mediante atti organizzativi o norme che ne impongano l’istituzione.

In mancanza di tale qualificazione, l’eventuale pretesa non può avere natura di adempimento ma, al più, risarcitoria, subordinata alla dimostrazione di un interesse legittimo leso.

La Corte conclude enunciando tre principi fondamentali:

  1. Specialità e limiti dei rinnovi – L’art. 19, co. 6, è disciplina speciale e va interpretata in coerenza con la direttiva 1999/70/CE e con l’art. 97 Cost.; superati i limiti di durata, non è consentito il rinnovo per attività ordinarie.
  2. Accesso alle selezioni – È legittima la riserva delle selezioni per dirigenti di prima fascia ai soli dirigenti di ruolo, per difetto di comparabilità con i dirigenti a termine.
  3. Qualificazione degli uffici – La rivendicazione delle retribuzioni proprie di un incarico dirigenziale generale non può basarsi solo sulle mansioni svolte, ma richiede la contestazione della legittimità degli atti organizzativi dell’ente.

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