In bagno solo col badge

L’efficienza non può mai essere anteposta alla dignità personale.

Di Giuseppe Vecchio

Con la sentenza r.g.n. 12504/2025, la Suprema Corte ha confermato la condanna di un datore di lavoro che, all’interno dell’organizzazione aziendale, aveva imposto ai dipendenti il divieto di recarsi ai servizi igienici senza previa autorizzazione. Tale disposizione si è rivelata fatale in un episodio che ha suscitato particolare indignazione: un dipendente, dopo aver più volte chiesto invano il permesso di allontanarsi per soddisfare un bisogno fisiologico urgente, si è visto costretto a muoversi autonomamente verso il bagno, ma ha finito per urinarsi addosso durante il tragitto. Subito dopo, è tornato al proprio posto di lavoro, nel tentativo di minimizzare l’accaduto.

Il giudice di merito nel ribadire che il rispetto della dignità del lavoratore è un dovere indeclinabile del datore di lavoro, in forza dell’art. 2086 del codice civile., ha evidenziato come l’episodio sia stato reso visibile ai colleghi, acquisendo così una dimensione pubblica tale da ledere non solo la dignità personale del lavoratore, ma anche il suo prestigio professionale all’interno e all’esterno dell’ambiente aziendale.

Il comportamento datoriale è stato ritenuto in grave contrasto con l’art. 2086 c.c., che impone al datore di lavoro di adottare un assetto organizzativo idoneo a tutelare l’integrità fisica e morale dei lavoratori. La gestione del personale, ha affermato la Corte, non può mai travalicare i limiti imposti dalla legge e dai principi di buona fede e correttezza, né può piegarsi a logiche produttivistiche disumanizzanti che subordinano i bisogni primari della persona a un “controllo autoritario” delle mansioni.

In particolare, la Corte ha ritenuto che la lesione della dignità personale, aggravata dalla pubblicità dell’accaduto, configuri un danno risarcibile, non solo sotto il profilo morale ma anche in relazione al prestigio professionale del lavoratore, compromesso in modo irreparabile. Il danno, accertato in via giudiziale, è stato ritenuto di natura non patrimoniale e meritevole di integrale ristoro.

Questa decisione, al di là del caso concreto, rappresenta un richiamo netto ai doveri organizzativi e gestionali del datore di lavoro: un’impresa non può mai diventare un luogo in cui la persona è “annullata” in nome dell’efficienza. La produttività non giustifica il controllo autoritario né può ridurre il lavoratore a mero ingranaggio impersonale del processo produttivo.

Il diritto al rispetto della “dignità minima” e delle esigenze fisiologiche, non è un “privilegio”, ma una componente essenziale dell’identità e del valore della persona nel luogo di lavoro.

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