Di Michele Mavino
La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V Penale, n. 28146 del 31 luglio 2025, si inserisce in un contesto di conflittualità di vicinato caratterizzato da forti tensioni, originate da presunti abusi edilizi compiuti dalla persona offesa. Gli imputati, ritenuti colpevoli del reato di stalking ai sensi dell’articolo 612-bis del codice penale, avevano giustificato la loro condotta sostenendo di aver agito per difendere la propria proprietà: le riprese fotografiche e video, così come i toni accesi usati nelle contestazioni, sarebbero stati – secondo la loro prospettazione – strumenti di autotutela e non atti persecutori.
La difesa aveva quindi presentato ricorso per Cassazione, lamentando due profili di illegittimità. Da un lato, si sosteneva che la testimonianza della persona offesa non fosse attendibile, in quanto potenzialmente motivata da un intento ritorsivo, legato alle precedenti denunce degli imputati in materia di abusi edilizi. Da qui la richiesta di applicare l’articolo 192, comma 3, del codice di procedura penale, che impone una valutazione particolarmente rigorosa per le dichiarazioni provenienti da soggetti portatori di interessi contrapposti. Dall’altro lato, si contestava la qualificazione giuridica della condotta come stalking: le riprese e le contestazioni verbali, anche se aspre, sarebbero state finalizzate ad impedire comportamenti illegittimi della parte civile, e dunque espressione dell’esercizio di un diritto, anziché di un’attività persecutoria.
La Suprema Corte ha respinto entrambe le doglianze, confermando la condanna. Nella motivazione, i giudici sottolineano un aspetto centrale: anche ammettendo che la persona offesa avesse effettivamente posto in essere opere edilizie abusive – circostanza peraltro accertata in separati procedimenti – ciò non poteva giustificare le modalità aggressive adottate dagli imputati, caratterizzate da ripetute minacce, ingiurie e una costante attività di sorveglianza invasiva. Si tratta di condotte che, per la loro reiterazione e per il loro contenuto, avevano generato nella vittima un grave stato d’ansia e l’avevano indotta a modificare le proprie abitudini di vita, elementi tipici della fattispecie di stalking.
Interessante è anche il passaggio relativo alle riprese fotografiche e video. La Cassazione non ne esclude in astratto la legittimità quando siano finalizzate a documentare fatti illeciti da portare all’attenzione dell’autorità competente. Tuttavia, nel caso concreto, esse non erano episodiche né funzionali a un’azione legale, bensì parte integrante di un atteggiamento persecutorio, inserito in un contesto di aggressività verbale e di minacce, rivolte non solo alla persona offesa ma anche ai suoi familiari, totalmente estranei alla vicenda. Proprio questo aspetto, osservano i giudici, richiama la giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di estorsione e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni: quando la pressione si traduce in minacce verso terzi estranei, essa non può essere ricondotta all’ambito dell’esercizio di un diritto, ma assume rilievo penale.
Quanto alla valutazione della credibilità della persona offesa, la Cassazione ha ribadito che la Corte di appello aveva correttamente tenuto conto dei riscontri esterni, quali un referto medico e la testimonianza di un terzo, che confermavano la veridicità del racconto. La conflittualità pregressa tra le parti non ha, quindi, inficiato la credibilità della vittima, poiché la valutazione complessiva del quadro probatorio aveva evidenziato una condotta persecutoria reale e documentata.
Un ulteriore chiarimento riguarda la cosiddetta “reciprocità delle condotte”: anche laddove vi siano rapporti conflittuali e tensioni da entrambe le parti, ciò non esclude la configurabilità del reato di stalking, a condizione che siano provati lo stato d’ansia, il timore per la propria incolumità o per quella di persone vicine e la necessità di modificare le proprie abitudini di vita. Nel caso di specie, tali elementi erano pacificamente emersi e non erano stati messi in discussione nemmeno dagli stessi imputati.
In definitiva, la Corte ha confermato la condanna, ribadendo che la tutela della proprietà privata e la contestazione di eventuali abusi edilizi devono essere perseguite attraverso gli strumenti previsti dall’ordinamento e non con comportamenti minacciosi o ossessivi che invadono la sfera privata altrui.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza del 31 luglio 2025, n. 28146
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 14 ottobre 2024, la Corte di Appello di Napoli, all’esito di trattazione orale, premesso che gli imputati hanno rinunciato alla prescrizione, ha confermato la pronuncia emessa in primo grado dal Tribunale di Santa Maria C.V., in composizione monocratica, il 24 novembre 2021, che aveva dichiarato C.C., E.M. ed E. S. colpevoli del reato di stalking, commesso in danno della persona offesa C.M., tra il gennaio del 2010 ed il gennaio 2012.
Avverso la suindicata sentenza, ricorrono per cassazione gli imputati, tramite il comune difensore di fiducia, deducendo due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
Col primo motivo deducono la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta attendibilità del narrato della persona offesa ex art. 192 del codice di rito. C.M., ovvero la persona offesa del presente procedimento, era stato in realtà imputato per reati connessi, essendogli stati contestati, in altro procedimento, sia l’abuso d’ufficio che l’abuso edilizio proprio in ragione delle riprese operate dai ricorrenti – oggetto dei presunti atti persecutori – i quali volevano esclusivamente evitare che il predetto continuasse a realizzare opere abusive che insistevano sul muro di loro proprietà. Di conseguenza si sarebbero dovute applicare le disposizioni del terzo comma dell’art. 192 in luogo di quelle previste dal primo comma. La difesa aveva, tra l’altro, evidenziato come la denuncia di C. fosse mera ritorsione nei confronti degli odierni imputati per avere
smascherato gli abusi edilizi oggetto della sentenza del Tar Campania emessa in data 9 Febbraio 2012. Sì era altresì evidenziato che non possono ritenersi validi riscontri il referto di P.S. del 3 novembre relativo a C.A.M., sorella della costituita parte civile, e le dichiarazioni rese dal teste D.M. riportati a pagina 3 della sentenza impugnata in quanto non fanno altro che confermare le riprese effettuate dagli imputati per dimostrare ai vigili urbani di (OMISSIS) gli abusi edilizi in questione. In ragione di quanto testè riportato il giudice di secondo grado non avrebbe potuto riscontrare l’attendibilità della persona offesa in presenza di prove schiaccianti che documentavano la sua volontà di vendicarsi per il sequestro delle opere abusive realizzate e della loro successiva demolizione, come da sentenza del Tar riportata a pagina 4 della sentenza impugnata (circostanza, questa, riportata dai giudici di merito ma mai correlata all’attendibilità del narrato della personaoffesa).
Col secondo motivo deducono l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 612-bis c.p. e conseguente vizio di motivazione, per assenza di riscontri sulle doglianze relative ai comportamenti assunti dagli imputati al fine di denunciaregli abusi posti in essere dalla parte civile sulla loro proprietà. Il giudice di appello ha ritenuto integrato il reato di atti persecutori in ragione delle presunte minacce ed ingiurie propalate dagli imputati nei confronti della persona offesa e delle riprese e fotografie scattate nei confronti di quest’ultima. Si è tuttavia omesso di rappresentare che le minacce rivolte dagli imputati alle persone offese erano dirette a non fare eseguire lavori abusivi sul muro di confine. La richiesta degli imputati, caratterizzata anche da toni aspri, era evidentemente finalizzata a tutelare il godimento del diritto di proprietà e le loro più che legittime aspirazioni all’integrità paesaggistica ed ambientale dell’area in cui essi vivono. Il male minacciato deve essere ingiusto ovvero, come tale, deve avere ad oggetto un danno ingiusto per la vittima, laddove nel caso di specie le minacce erano finalizzate a far cessare un comportamento palesemente criminoso posto in essere dalla persona offesa, riscontrato in virtù dell’imputazione di quest’ultima per il reato di abuso d’atti di ufficio e di abuso edilizio (quest’ultimo a sua volta riscontrato anche dalla sentenza del Tar).
Il giudice di secondo grado ha, inoltre, erroneamente applicato l’art. 615-bis cod. pen. quale segmento della condotta persecutoria attribuita agli imputati nel caso di specie, laddove non è ravvisabile alcuna pretesa al rispetto della riservatezza, né può parlarsi di indebita interferenza nella vita privata altrui, in presenza dell’esercizio di un diritto. Non può in altri termini ritenersi interferenza illecita l’attività di ripresa fotografica e filmata di lavori eseguiti dal vicino di casa in prossimità del confine prediale, laddove, peraltro, l’intervento della forza pubblica può rilevarsi – ove davvero possibile – del tutto vano qualora l’attività sia legittima sul piano amministrativo e nondimeno illecita sul versante civilistico. Nel caso di specie, le opere edilizie poste in essere dalla persona offesa sono state oggetto anche di un ordine di demolizione; e la persona offesa è stata giudicata, in ordine a tali abusi, con separato giudizio approdato alla declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
La motivazione impugnata è, altresì, illogica perché ritiene che l’estinzione dei reati aventi ad oggetto gli abusi perpetrati dalla persona offesa per intervenuta prescrizione non abbia in alcun modo inciso sulla valutazione della sussistenza sia dell’elemento oggettivo sia soggettivo del reato di atti persecutori.
In definitiva, la Corte di appello non ha in alcun modo tenuto conto dell’esercizio del diritto soggettivo in capo agli imputati legittimamente esercitato attraverso l’attività di ripresa fotografica ritenuta erroneamente molesta e quindi integrante il reato di cui all’art. 612-bis, laddove essa è stata posta in essere dagli imputati in autotutela, come prova degli abusi edilizi, delle minacce di morte, delle ritorsioni e degli insulti che si ricevevano dalla famiglia della parte lesa ogniqualvolta venivano fatte delle denunce ai vigili urbani o si pensava che fossero state fatte denunce ai vigili urbani (come evincibile dalle registrazioni di conversazioni tra presenti mai valutate dai giudici di merito).
I ricorsi, proposti successivamente al 30.6.2024, sono stati trattati – ai sensi dell’art. 611 come modificato dal d.lgs. del 10.10.2022 n. 150 e successive integrazioni – su richiesta, con l’intervento delle parti che hanno rassegnato le conclusioni indicate in epigrafe.
Considerato in diritto
1.I ricorsi – che deducono, congiuntamente, i medesimi temi, e verranno quindi trattati unitariamente – sono nel loro complesso infondati, denotando anche tratti di inammissibilità.
1.1. Rimasta, in buona sostanza, affidata ad una mera prospettazione di parte è innanzitutto l’impostazione dei ricorsi che tende a far leva sugli abusi edilizi che aveva posto in essere la persona offesa, nell’ottica di ricondurre le condotte degli imputati all’esercizio di un diritto, quello di proprietà, facendo generico riferimento all’esigenza di evitare che il vicino di casa – la persona offesa – continuasse a realizzare opere abusive sul confine prediale ovvero sul muro di proprietà (laddove gli abusi di cui alla sentenza del Tar, depositata il 9.2.2012, più volte citata dai ricorrenti, consistono nell’ampliamento della quota del fabbricato sul lato nord-est, con conseguente aumento di volumetria e superficie, in relazione alle quali era stata adottata l’ordinanza di demolizione n. 1696 del 3 novembre 2006; nonché nella prosecuzione illecita delle opere edilizie – realizzazione di uno scavo ubicato nell’androne del portone per la messa in opera e deposito di tubi in plastica per la collocazione di una fossa biologica da collegare alla rete fognaria, sanzionata con successiva ordinanza n. 2291 del 18 dicembre 2006, del Comune di OMISSIS ).
E, dalla stessa sentenza penale dichiarativa della prescrizione, emessa dal Tribunale di Santa Maria C.V. il 10.3.2016, prodotta dal difensore della parte civile, cui pure fanno riferimento i ricorsi, si evince che gli abusi consistono in aggetti sporgenti che afferiscono ad un balcone e alla sua copertura, che insistono sulla parete (nord) del manufatto che affaccia su uno spazio di esclusiva proprietà del C. ovvero un cortile interno, e risalgono al 2006, al più tardi al 2008 (tale sentenza in verità dà atto anche di ulteriori abusi denunciati, rimasti tuttavia indefiniti in quanto fuori dall’ambito di quel procedimento, né essi sono stati specificamente indicati in ricorso). Nell’ottica difensiva, difetterebbe quindi il male ingiusto che deve sussistere affinché possa ritenersi integrata la minaccia. E, quanto agli atti persecutori che riguardano l’attività di fotografia e ripresa delle opere abusive, neppure essi potrebbero ritenersi integrativi del reato contestato non risolvendosi in interferenze illecite nella vita privata della persona offesa perché aventi ad oggetto comportamenti, peraltro illeciti, che pur svolgendosi in luoghi di privata dimore erano liberamente osservabili dall’esterno, ed essendo comunque, essi, meramente strumentali all’esercizio del diritto di difesa, risultando preordinati alla tutela del diritto di proprietà legittimamente esercitato dagli agenti.
In ogni caso, la difesa assume che la denuncia sporta dalla persona offesa sarebbe espressione di mera ritorsione nei confronti degli imputati per avere smascherato gli abusi edilizi oggetto della suindicata sentenza del Tar Campania del Febbraio 2012, non tenuta in debito conto dalla Corte di appello.
In realtà, la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata prescinde dalla circostanza degli abusi edilizi posti in essere dalla persona offesa e dalle relative pretese degli imputati, pretese in ogni caso tutelabili attraverso i rimedi che offre l’ordinamento, ritenendo che invece sia le minacce e le ingiurie che l’attività di ripresa e fotografia delle condotte poste in essere dalla parte civile integrino atti persecutori per contenuti, portata e reiterazione nel tempo, avendo, esse, tra l’altro, finito per costringere la persona offesa a mutare le sue abitudini di vita. Evidenzia la Corte di merito che la condotta dei prevenuti non si limitava alle video- riprese ma che gli stessi erano soliti minacciare ed ingiuriare la persona offesa ogni volta che la stessa si recava a trovare il padre presso la proprietà adiacente a quella degli imputati, ed intimare alla stessa di non ritornare altrimenti gliel’avrebbero fatta pagare cara, prospettando mali ingiusti anche nei confronti dei suoi familiari. Tali condotte vessatorie – si sottolinea nella sentenza impugnata – avevano finito col costringere la persona offesa a vivere in un costante stato di ansia e timore a tal punto che egli aveva impedito ai suoi figli di far visita al nonno per paura di eventuali ritorsioni anche nei loro confronti.
La Corte territoriale ha, in buona sostanza, inteso affermare che anche l’eventuale realizzazione illecita di opere edilizie da parte della persona offesa non avrebbe potuto giustificare le intollerabili condotte poste in essere dagli imputati che hanno scientemente e reiteratamente ingiuriato e minacciato, con frasi
involgenti anche terze persone estranee alla contesa, ingenerando nella vittima un grave stato d’ansia, che l’induceva a modificare le abitudini di vita anche dei propri familiari. E quanto alla condotta di ripresa e fotografia, che gli imputati tendono a giustificare sempre nell’ottica dell’esercizio dii un diritto – quello di difesa – la Corte di merito ha, in sostanza, evidenziato come esse si qualificassero come moleste peril contesto complessivo in cui si inserivano risultando puntualmente accompagnate dalle altre condotte poste in essere di minacce ed ingiurie; e non ha mancato di segnalare, la Corte di Appello, come, peraltro, gli imputati ben avrebbero potuto rivolgersi alle autorità competenti per far valere le loro pretese piuttosto che porre in essere gli atti persecutori a loro ascritti (d’altra parte erano effettivamente partite delle denunce nei confronti della persona offesa in ordine ai presunti abusi in argomento, ma le minacce non prospettavano l’esercizio di azioni legali bensì genericamente che la si sarebbe “fatta pagare” alla persona offesa e ai suoi familiari).
D’altra parte, come affermato dalle Sezioni Unite a proposito del delitto di estorsione e della sua differenza con la fattispecie dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 01), deve ritenersi sussistere l’estorsione nei casi in cui l’agente abbia esercitato la pretesa con violenza e/o minaccia in danno di un terzo assolutamente estraneo al rapporto obbligatorio esistente inter partes, dal quale scaturisce la pretesa azionata, per costringere il debitore ad adempiere (Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344: fattispecie in cui il creditore ed i coimputati avevano rivolto nei confronti del debitore gravi minacce in danno del figlio e della moglie; Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017), poiché essa non sarebbe tutelabile dinanzi all’Autorità giudiziaria, risultando in concreto diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale (Sez. 2, n. 16658 del 16/01/2014, D’Errico, Rv. 259555 e Sez. 2, n. 45300 del 28/10/2015, Immordino, Rv. 264967, entrambe in fattispecie nelle quali era stata usata violenza in danno del padre del debitore, per costringerlo ad adempiere il debito del figlio).
Il ragionamento delle Sezioni Unite può essere riproposto rispetto alla fattispecie di minaccia del caso di specie, poiché la prospettazione di un male a persone del tutto estranee alla questione sottostante non può certamente giustificare la condotta contestata agli imputati. Quindi, pure a voler dare rilievo alla pretesa rivendicata in ricorso, si deve comunque rilevare che essa trasmoda in minaccia penalmente rilevante, quanto meno, nella misura in cui involge terzi estranei al presunto contesto illecito che avrebbe mosso l’agire dei ricorrenti.
Residua il profilo dell’attendibilità, che in realtà il ricorso pone come premessa del suo argomentare, legato proprio all’aspetto della litigiosità esistente tra le parti, che nella prospettazione difensiva minerebbe la veridicità del racconto della parte civile (che avrebbe a mero scopo ritorsivo denunciato gli imputati in ordine ai fatti
per cui è processo).Ebbene, anche tale aspetto, alla stregua di quanto osservato dalla Corte di appello, deve ritenersi infondato, anche perché la valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa è in realtà intervenuta tenendo conto dei riscontri emersi a sostegno della credibilità del propalante (la sentenza impugnata ha dato atto che le dichiarazioni della persona offesa hanno trovato riscontro sia nel referto di pronto soccorso del 3 novembre 2011, citato in ricorso, sia nelle dichiarazioni del teste D.M., che confermano a loro volta il comportamento minaccioso e ingiurioso tenuto dagli imputati verso la persona offesa). Sicché, di là della esistenza o meno di una connessione rilevante tra i fatti per cui è processo e quelli di cui alla sentenza di prescrizione, relativa agli abusi edilizi, emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sopra citata, non si può ravvisare la violazione del comma 3 dell’art. 192 del codice di rito di cui si duole la difesa.
Né – è il caso, infine, di precisare – potrebbe avere rilievo la eventuale reciprocità dei comportamenti, pure adombrata nei ricorsi, dal momento che la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tali ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita (cfr. tra tante, Sez. 5, Sentenza n. 42643 del 24/06/2021, Rv. 282170 – 01), laddove nel caso di specie non risulta neppure oggetto di contestazione la ravvisata sussistenza dell’evento.
- Dalle ragioni sin qui esposte deriva il rigetto dei ricorsi, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di procedimento. Consegue altresì la condanna degli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile liquidate, come richiesto, in complessivi euro 3167, 00, oltre accessori di legge.
In ragione del tipo di reato, in caso di diffusione del presente provvedimento devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile C.M. che liquida in complessivi euro 3167,00 oltre accessori di legge.