Di Luca Leccisotti
La vicenda dell’omessa vigilanza dirigenziale in presenza di una delega di firma offre l’occasione per riordinare, con sguardo sistematico e taglio pratico-operativo, i nessi tra principio di legalità, riparto di competenze interne, posizione di garanzia del dirigente, poteri sostitutivi e responsabilità erariale, con ricadute dirette nell’ecosistema dei contratti pubblici. Il punto fermo da cui muovere è noto ma spesso frainteso nella prassi: la cosiddetta delega di firma, in quanto delega amministrativa intersoggettiva, non trasferisce la competenza, non “svuota” il munus del delegante e non estingue l’obbligo di vigilare e di esercitare i poteri di direzione, coordinamento e controllo sull’attività dell’ufficio e del delegato. La competenza rimane in capo al dirigente; al delegato è conferita una legittimazione ad adottare atti in nome del dirigente nel perimetro della funzione di quest’ultimo. Da qui discende la regola che conta davvero in giudizio: se l’ufficio va in disordine, se si consolidano prassi elusive dei controlli, se i flussi finanziari non sono presidiati, la responsabilità non evapora dietro la formula “ho delegato la firma”.
La trama costituzionale che sorregge questo esito è scritta all’articolo 97, che impone legalità e buon andamento come criteri oggettivi di assetto dell’azione amministrativa, e trova la sua declinazione funzionale nel diritto positivo di organizzazione. Nel pubblico impiego privatizzato, l’articolo 17 del d.lgs. 165/2001 esplicita il cuore del munus dirigenziale: i dirigenti dirigono, coordinano e controllano l’attività degli uffici dipendenti e dei responsabili del procedimento, anche con poteri sostitutivi in caso di inerzia. Il che significa che la vigilanza non è un orpello ma la sostanza stessa della funzione: è dovere giuridico, non opzione discrezionale. Sul versante degli enti locali, l’articolo 107 del T.U.E.L. ribadisce la titolarità in capo ai dirigenti della gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, con autonomi poteri di organizzazione delle risorse umane e strumentali e degli strumenti di controllo. In questo statuto, la delega di firma non si colloca come esonero, ma come modalità organizzativa interna. Laddove si verifichi un deficit di controllo che consenta l’instaurazione di prassi contra ius, l’omissione di vigilanza è causalmente imputabile a chi aveva l’obbligo primario di prevenirla, intercettarla e rimuoverla.
La giurisprudenza contabile recente ha dato forma concreta a questi principi, sottolineando che l’atto di delega non ha la virtù di “spegnere” la competenza né di interrompere il nesso di signoria dell’organo delegante sulla funzione. Si tratta di un punto che, fuori dai formalismi, ricostruisce la responsabilità dirigenziale come responsabilità da posizione di garanzia: chi è preposto all’ufficio è garante dell’assetto organizzativo minimo necessario a impedire che l’azione amministrativa deragli dal binario della legalità, della tracciabilità e della corretta contabilizzazione di entrate e uscite, e garante del controllo sui processi critici di quell’ufficio. Di conseguenza, l’assenza o l’inadeguatezza di misure organizzative elementari – come l’individuazione degli agenti contabili, la segregazione delle funzioni, la rendicontazione periodica, la tracciabilità dei flussi di cassa e documentali, la calendarizzazione di controlli interni di linea e di secondo livello – è idonea ad attivare il circuito della responsabilità erariale quando si traduca in un pregiudizio patrimoniale per l’ente.
Questa impostazione ha una ricaduta diretta nei contratti pubblici disciplinati dal d.lgs. 36/2023. Il nuovo codice ha introdotto un’architettura di principi che spostano il baricentro dall’adempimento formale alla capacità di conseguire il risultato nel rispetto della legalità, in un quadro di fiducia qualificata e responsabilizzazione effettiva dei funzionari. All’interno di questa cornice, il Responsabile unico del progetto (RUP) – figura oggi definita e regolata nel codice e nella relativa disciplina di dettaglio – è ingranaggio cruciale di governo del ciclo dell’appalto: programmazione, progettazione, affidamento, esecuzione e collaudo sono territori di responsabilità dove la vigilanza non può sciogliersi nella delega meramente esecutiva. Anche quando il RUP o il dirigente responsabile del settore appalti attribuiscano deleghe di firma o incarichi istruttori a responsabili del procedimento, direttori dell’esecuzione, responsabili di fase, tali deleghe non scalfiscono l’obbligo di presidiare la filiera del controllo, di prevenire inerzie e deviazioni e di attivare i poteri sostitutivi in caso di mancato riscontro.
Da un punto di vista dogmatico, è opportuno distinguere due istituti che nella prassi vengono talvolta confusi. La delega di funzioni – che comporta uno spostamento di competenza sostanziale – è altra cosa rispetto alla delega di firma, che è mera attribuzione del potere di sottoscrizione in nome e per conto del delegante nell’ambito della sua funzione. Nelle amministrazioni pubbliche la seconda è fisiologica, la prima è, per la maggior parte dei procedimenti, incompatibile con il regime legale della competenza, essendo quest’ultima disposta dalla legge o dai regolamenti organizzativi e non liberamente trasferibile. Anche laddove la normativa consenta articolazioni interne o attribuzioni di responsabilità di fase, ciò avviene entro un sistema di rimedi che mantiene in capo al dirigente preposto il dovere di indirizzo e di controllo, con la conseguenza che la sua inerzia è giuridicamente rilevante e causalmente efficiente rispetto all’evento di danno.
Sul piano dell’elemento soggettivo, l’accertamento della colpa grave in sede contabile non è legato al dolo specifico di procurare un danno, ma alla misura di diligenza esigibile dall’agente in relazione al ruolo ricoperto, alla prevedibilità dell’evento dannoso, alla disponibilità degli strumenti giuridici ed organizzativi necessari a prevenirlo. La colpa grave del dirigente che non vigila può emergere per totale assenza di presidi elementari, per reiterata tolleranza di prassi illegittime, per mancata adozione di provvedimenti organizzativi e sostitutivi nonostante la conoscibilità del disordine, o per improvvida delega in bianco accompagnata dall’inerzia dei controlli. La giurisprudenza contabile sottolinea come, in simili contesti, anche la mera “mancata attivazione” del potere di controllo e di sostituzione – soprattutto quando la situazione di disordine sia conoscibile con un minimo di attenzione professionale – integri quel disvalore soggettivo che giustifica la condanna.
Il nesso causale, in tali giudizi, si costruisce secondo il modello della condicio sine qua non temperato dai criteri di regolarità causale e di adeguatezza: non si pretende che la vigilanza avrebbe eliminato ogni rischio, ma che l’adempimento diligente degli obblighi organizzativi e di controllo avrebbe verosimilmente impedito o significativamente ridotto il pregiudizio. Ne discende che l’amministrazione e la procura contabile non debbano compiere una prova diabolica, bensì dimostrare la relazione tra omissione di vigilanza e produzione del danno alla luce delle circostanze del caso, della conoscibilità ex ante del rischio e della concreta praticabilità delle misure dovute. Nel perimetro dei contratti pubblici ciò si traduce, per esempio, nella mancata attivazione di controlli in esecuzione sul rispetto di tempi, qualità e prezzi, nell’assenza di un sistema di verifica di contabilità lavori o di SAL coerenti con i fatti, oppure nella tolleranza di una catena di sub-affidamenti irregolari nonostante segnali oggettivi percepibili da un operatore diligente.
La funzione di presidio che il diritto assegna al dirigente non è meramente cartolare. Essa abita le scelte di microdesign organizzativo: definire chi fa cosa, quando e come; dissociare gli snodi critici del processo; ordinare la circolazione delle informazioni; assicurare che la firma non coincida con l’unico punto di controllo; predisporre verifiche periodiche prevedibili e, quando serve, sopralluoghi o audit a sorpresa. In tema di entrate e pagamenti, la mancata individuazione degli agenti contabili è l’emblema di un’organizzazione che abdica alle regole primarie della contabilità pubblica; in tema di appalti, la mancata assegnazione formale delle responsabilità di fase e la carenza di tracciabilità delle determinazioni dell’ufficio contratti evidenziano la stessa resa. La giurisprudenza riconduce tali omissioni a scelte organizzative colpose, perché non è la singola distrazione a rilevare, quanto piuttosto il vuoto del sistema di controllo che consente la proliferazione degli illeciti o delle inefficienze lesive.
È qui che il paradigma del “principio del risultato”, introdotto e valorizzato dal d.lgs. 36/2023, incontra la responsabilità dirigenziale: il risultato non è un lasciapassare, ma una misura dell’azione conforme a legalità, “vale a dire” risultato nel rispetto delle regole. La fiducia, altro principio cardine del nuovo codice, non è abdicazione ma investimento che pretende accountability. Ne discende una geometria di responsabilità più netta: si ridimensionano i formalismi che non servono, ma s’inaspriscono le attese su presidio, decisione tempestiva, controllo sugli esiti. La delega di firma è compatibile con questa geometria solo se è immersa in un ecosistema di controllo che funziona.
Spostando l’attenzione sul RUP, la disciplina di dettaglio ne disegna una responsabilità unitaria, pur ammettendo, soprattutto per le commesse complesse, la distribuzione di compiti a responsabili di fase, direzioni lavori, direzioni dell’esecuzione, collaudatori, commissioni di gara. In nessuno di questi casi, però, l’ente è privo di un presidio: il RUP rimane garante della continuità procedimentale e del coordinamento; il dirigente di settore resta garante dell’assetto organizzativo e dell’effettività dei controlli di linea. Quando il RUP firma un atto su delega del dirigente o quando un responsabile di fase sottoscrive documenti in nome del RUP, non si realizza un esonero di responsabilità del preponente. Anzi, si accresce l’esigenza di tracciare istruzioni, limiti, standard e verifiche per evitare il cortocircuito tra “firma delegata” e “vacanza di controllo”.
Il tema diventa particolarmente sensibile nella fase di esecuzione, dove la fisiologia del contratto incontra le patologie più ricorrenti: sospensioni e proroghe, varianti in corso d’opera, riserve, contabilizzazione, penali e, sul versante dei servizi e forniture, verifiche di conformità e gestione del rapporto qualità-prezzo. L’assenza di un sistema di allerta – per esempio sulla soglia di varianti rispetto al quadro economico, sui ritardi non giustificati o sul superamento di tetti di subappalto – e la paralisi dei poteri sostitutivi di fronte a inerzie o inadempienze del direttore dell’esecuzione o dell’appaltatore, rivelano omissioni che lo schema della responsabilità contabile qualifica come gravi. La colpa grave è configurabile, infatti, quando l’organizzazione non prevede ciò che dovrebbe necessariamente prevedere, o quando il responsabile, informato o ragionevolmente informabile, non si attiva per tempo con gli atti conformi alla legge: contestazioni, diffide, escussioni di garanzie, risoluzioni, ovvero, sul versante endo-procedimentale, revoche della delega, sostituzioni e riassegnazioni.
Nella dimensione finanziaria delle stazioni appaltanti, la vigilanza si intreccia con i doveri di corretta imputazione e rendicontazione della spesa. Qui la delega di firma è spesso incolpata oltre il suo peso specifico: non è la firma del funzionario “X” in luogo del dirigente “Y” ad aver prodotto il danno, ma la catena causale costituita dall’assenza di regole chiare, dalla mancanza di segregazione tra chi istruisce e chi liquida, dall’assenza di verifiche a campione e di quadrature periodiche, dall’uso di canali informali di scambio documentale. In giudizio, quei vuoti si leggono come omissioni organizzative imputabili ai titolari del munus di direzione e controllo.
Sul piano probatorio, vale la pena ricordare che la responsabilità erariale è personale e richiede l’accertamento di un comportamento quantomeno gravemente colposo e di un nesso causale con un pregiudizio economicamente valutabile; tuttavia, in presenza di doveri di garanzia specifici – come quelli dirigenziali – l’omissione di vigilanza assume una valenza autonoma. Questo spiega perché la difesa centrata esclusivamente sulla delega di firma non regge: è irrilevante rispetto alla prova del fatto che il dirigente disponesse di poteri idonei a prevenire il danno (organizzare, istruire, controllare, sostituire, revocare, segnalare) e non li abbia esercitati. Il parametro non è la perfezione, ma la diligenza esigibile da un dirigente in un contesto amministrativo medio, misurata sull’esperienza, sui regolamenti interni e sulle buone pratiche del settore.
Per le stazioni appaltanti che vogliano tradurre questi principi in organizzazione concreta, alcune leve risultano decisive. In primo luogo, la cartografia dei processi: disegnare il flusso del procedimento in ogni fase, individuare i punti di controllo, assegnare responsabilità nominali, definire standard di istruttoria e tempi di attraversamento, prevedere KPI di vigilanza (ritardi, varianti, riserve, non conformità, penali irrogate e incassate, contenzioso attivato e chiuso). In secondo luogo, la segregazione delle funzioni critiche: chi istruisce non liquida, chi certifica la regolare esecuzione non è lo stesso che valida il pagamento, chi gestisce i SAL non è l’unico che li controlla. Terzo, la tracciabilità e la digitalizzazione dei flussi: i protocolli devono essere vivi, i documenti versionati, i fascicoli di gara e di esecuzione consultabili in tempo reale; le autorizzazioni straordinarie e le deroghe devono lasciare impronte verificabili. Quarto, i poteri sostitutivi: devono essere codificati nelle procedure e attivati senza esitazioni quando i responsabili di fase tacciono o rallentano. Quinto, l’audit interno: programmato e a sorpresa, con restituzione rapida dei risultati al dirigente, che è chiamato a reagire con provvedimenti tempestivi, non con memorie di stile.
È utile interrogarsi anche sul confine tra responsabilità contabile e responsabilità disciplinare. Spesso i medesimi fatti integrano entrambi i profili: l’omessa vigilanza è, per il dirigente, inadempimento di obblighi di servizio oltre che condotta produttiva di danno. La reazione dell’ente non può limitarsi alla ricerca del ristoro erariale; deve anche attivare i meccanismi di prevenzione e, se del caso, la responsabilità disciplinare, pena la riproduzione del medesimo disordine. La coerenza tra questi piani è parte della buona amministrazione: la prevenzione è la prima difesa contro il danno, e la cultura dell’accountability vale più di un regolamento ben scritto ma disapplicato.
Qualcuno potrebbe obiettare che l’insistenza sulla responsabilità del dirigente scoraggi l’assunzione di decisioni, alimentando il “paese dei no”. È un rischio reale solo quando si confondono controllo e immobilismo. La responsabilità di risultato, nel codice dei contratti, pretende scelte tempestive e motivate, non la paralisi. Il dirigente che organizza, istruisce e controlla dispone di uno scudo robusto: la conforme attivazione dei poteri a disposizione. Il pericolo si annida semmai nelle organizzazioni che coltivano l’alibi della delega e della prassi informale, dove la vigilanza si riduce a firma ex post e il controllo a “vedere se qualcuno si lamenta”. In quelle situazioni, la responsabilità non è una trappola, è l’esito quasi inevitabile di una gestione che abdica ai fondamentali.
Il rapporto tra delega di firma e responsabilità erariale acquisisce, insomma, una fisionomia nitida. La delega non è un trasferimento di competenza; il delegante resta titolare del munus e dei correlati doveri di garanzia; la vigilanza è un obbligo positivo di impedire eventi dannosi ragionevolmente prevedibili attraverso l’adozione e l’attuazione di misure organizzative e di controllo; l’omessa attivazione dei poteri sostitutivi, specie a fronte di inerzie note o conoscibili, è indice di colpa grave; nei contratti pubblici, dove la spesa è ampia e i processi sono complessi, questa responsabilità si amplifica perché la filiera dell’appalto moltiplica i punti di rischio e i segnali deboli da intercettare.
Questo quadro non pretende eroi solitari, ma dirigenti che tornino a fare i dirigenti. Che assumano su di sé la responsabilità di disegnare procedure chiare, di pretendere evidenze, di misurare gli esiti, di formare i collaboratori, di usare i poteri di cui dispongono. La firma delegata è uno strumento di efficienza; la vigilanza, invece, è la sostanza della funzione. Se si capovolgono i piani e si immagina che la prima possa sostituire la seconda, il conto – puntuale – lo presenterà la giurisdizione contabile. Nell’interesse di tutti, ben prima che si arrivi a quel punto, è dovere dell’amministrazione – del dirigente che la guida e del RUP che la incarna nei contratti – riempire di contenuto il principio del risultato, perché risultato e legalità, nella pubblica amministrazione, o stanno insieme o non stanno affatto.










