Incostituzionale la deroga al regime di perseguibilità a querela.
Di Michele Mavino
La sentenza n. 123 del 2025 della Corte Costituzionale interviene su un aspetto peculiare della “riforma Cartabia” (d.lgs. n. 150/2022) e del suo successivo decreto correttivo (d.lgs. n. 31/2024), dichiarando parzialmente incostituzionale l’art. 85, comma 2-ter, del d.lgs. 150/2022, nella parte in cui, richiamato dall’art. 9 del d.lgs. 31/2024, prevedeva la permanenza della procedibilità d’ufficio del reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) quando connesso al reato di danneggiamento aggravato di cose esposte alla pubblica fede (art. 635, comma 2, n. 1, c.p.), anche dopo che quest’ultimo era divenuto perseguibile a querela.
La disciplina censurata impediva di applicare la regola generale secondo cui, quando una norma sopravvenuta rende più favorevole il regime di procedibilità (ad esempio trasformando un reato da procedibile d’ufficio a procedibile a querela), tale beneficio si applica retroattivamente ai fatti commessi prima della modifica normativa. L’art. 85, comma 2-ter, creava infatti una deroga espressa, mantenendo la procedibilità d’ufficio per i reati di atti persecutori, violenza sessuale e diffusione illecita di immagini intime, se connessi a un reato divenuto perseguibile a querela.
Secondo la Corte, tale deroga, in quanto innovativa e non meramente interpretativa, costituisce un vero e proprio limite al principio di retroattività della legge penale più favorevole (lex mitior), principio che trova fondamento nell’art. 3 Cost., nel diritto internazionale (art. 15 Patto ONU, art. 49 CDFUE) e nella giurisprudenza europea.
La Corte richiama la propria consolidata giurisprudenza secondo cui l’autore del reato ha diritto a essere giudicato in base alla valutazione attuale del disvalore del fatto, salvo che non sussistano interessi costituzionalmente rilevanti che giustifichino una deroga ragionevole e proporzionata. L’Avvocatura dello Stato aveva invocato la tutela della persona offesa, per evitare che, anche a distanza di tempo, fosse costretta a “esporsi” per proporre querela.
La Corte ha tuttavia ritenuto non convincente questa motivazione:
- il regime ordinario degli atti persecutori è già a querela, con possibilità di remissione anche dopo l’avvio del processo;
- la disciplina contestata può addirittura costringere la vittima a partecipare a un processo che non desidera, incidendo negativamente sulla sua sfera privata;
- non vi sono interessi di rango costituzionale tali da bilanciare la violazione del diritto dell’imputato ad applicare la disciplina più favorevole.
La Corte ha dunque dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 85, comma 2-ter, d.lgs. 150/2022, nella parte in cui – per i reati di atti persecutori connessi al danneggiamento aggravato di cose esposte alla pubblica fede – manteneva la procedibilità d’ufficio nonostante la sopravvenuta perseguibilità a querela del danneggiamento. Ha inoltre stabilito che, con la pubblicazione della sentenza, decorrono nuovi termini per proporre querela, sanando l’effetto dell’intervenuta decadenza.