Cassazione: incarichi dirigenziali a termine, flessibilità e doppia via per gli enti locali

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Di Luca Leccisotti

La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 13641 del 2025, segna un passaggio di rilievo nella disciplina degli incarichi dirigenziali conferiti a tempo determinato nelle Regioni e negli enti locali. Si tratta di un intervento interpretativo che, per la prima volta dopo anni di incertezze e oscillazioni giurisprudenziali, riconosce esplicitamente una “doppia via” per la dirigenza pubblica: una ordinaria, fondata su incarichi conferiti a dirigenti di ruolo con durata minima triennale; e una straordinaria, caratterizzata dagli incarichi fiduciari a tempo determinato ex articolo 110 del Testo unico degli enti locali (d.lgs. 267/2000), per i quali non sussiste alcun vincolo di durata minima.

La pronuncia, destinata ad avere riflessi significativi sulle scelte organizzative degli enti territoriali, ribalta un orientamento consolidato della stessa Corte, che risaliva alla sentenza n. 478 del 2014 e che aveva, di fatto, uniformato i due regimi, imponendo anche per gli incarichi “a termine” un vincolo di durata minima triennale. La nuova impostazione, invece, riconosce la piena autonomia applicativa dell’articolo 110 TUEL e la natura eccezionale, derogatoria e fiduciaria degli incarichi dirigenziali conferiti sulla base di tale disposizione.

Secondo la Cassazione, gli incarichi a dirigenti di ruolo sono disciplinati dal comma 2 dell’articolo 19 del d.lgs. 165/2001, che prevede espressamente una durata “non inferiore a tre anni e non superiore a cinque”, mentre quelli conferiti a tempo determinato trovano fondamento nel comma 6 dello stesso articolo, che stabilisce soltanto una durata massima quinquennale, senza fissare un minimo. Tale distinzione, puntualizzano i giudici di legittimità, è confermata dal comma 6-ter, che delimita l’ambito di estensione del comma 6 alle Regioni e agli enti locali, escludendo implicitamente la generalizzata applicazione del comma 2 alle stesse amministrazioni.

La conseguenza è chiara: l’articolo 19, nel suo complesso, non si applica integralmente agli enti locali, ma solo nei limiti della compatibilità espressamente dichiarata dal legislatore. La durata minima triennale, dunque, vale esclusivamente per gli incarichi dirigenziali conferiti a funzionari di ruolo, mentre per gli incarichi esterni o comunque a tempo determinato – che trovano disciplina autonoma nel TUEL – resta solo il limite massimo di cinque anni, normalmente coincidente con la durata del mandato politico.

Questa impostazione, per quanto innovativa, trova un solido fondamento sistematico nella struttura stessa del d.lgs. 165/2001, il quale distingue con chiarezza tra l’assetto ordinario della dirigenza pubblica e gli incarichi conferiti “ai sensi di contratti di diritto privato, con rapporto di lavoro a tempo determinato”, che rispondono a logiche fiduciario-politiche e non meramente amministrative.

Il caso concreto all’origine della sentenza – relativo a una dipendente regionale che aveva ottenuto un incarico dirigenziale semestrale e ne rivendicava la trasformazione in rapporto triennale – ha consentito alla Corte di precisare che il principio di equivalenza temporale tra incarichi di ruolo e incarichi fiduciari non trova alcun fondamento normativo, anzi contrasta con la ratio di flessibilità che ispira l’articolo 110 TUEL e il comma 6 dell’articolo 19 del d.lgs. 165/2001.

La Corte di Cassazione ha quindi affermato che il legislatore ha voluto consentire alle amministrazioni territoriali margini di autonomia organizzativa più ampi rispetto all’amministrazione statale, riconoscendo la legittimità di incarichi di durata inferiore ai tre anni, purché conferiti nel rispetto delle finalità pubbliche e dei principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento. In altri termini, l’assenza di un vincolo minimo non legittima un uso arbitrario dell’istituto, ma consente una maggiore aderenza tra la durata dell’incarico e le esigenze temporali dell’amministrazione.

È evidente che l’orientamento della Cassazione si traduce in un significativo riequilibrio tra stabilità e flessibilità nella gestione della dirigenza pubblica. Per gli enti locali, la decisione apre la possibilità di conferire incarichi di durata commisurata al ciclo amministrativo, alle esigenze di progetto o alle contingenze finanziarie, senza il timore di incorrere in violazioni del principio di durata minima. In questo senso, la sentenza rappresenta un riconoscimento della specificità dell’amministrazione locale, da sempre caratterizzata da un rapporto più diretto tra organi politici e struttura amministrativa.

Sul piano giuridico, la Corte fonda il proprio ragionamento su una lettura letterale e sistematica dell’articolo 19, ritenendo che l’estensione alle Regioni e agli enti locali operi solo nei limiti stabiliti dal comma 6-ter. L’argomento è rafforzato dal dato testuale dell’articolo 110 del TUEL, che collega espressamente la durata dell’incarico alla durata del mandato del sindaco o del presidente della provincia, con un chiaro intento di evitare disallineamenti tra indirizzo politico e dirigenza fiduciaria.

È dunque legittimo un incarico di sei mesi, come quello oggetto del giudizio, se motivato da esigenze temporanee e se conferito nel rispetto delle procedure di evidenza pubblica semplificata previste dall’articolo 110, comma 1. Resta, ovviamente, fermo l’obbligo per l’amministrazione di motivare in modo puntuale la durata ridotta e di assicurare il rispetto dei criteri di professionalità, competenza e adeguatezza dell’incaricato.

L’arresto della Cassazione assume valore sistemico anche per la gestione dei dirigenti “di ruolo” interni, perché consolida la distinzione funzionale tra incarichi di ruolo e incarichi fiduciari. I primi, conferiti ai sensi dell’articolo 19, comma 1 e 2, del d.lgs. 165/2001, rimangono ancorati al principio di continuità gestionale e alla durata minima triennale; i secondi, disciplinati dal comma 6 e dall’articolo 110 TUEL, rispondono a logiche di flessibilità e temporaneità, coerenti con l’indirizzo politico.

La Cassazione, con argomentazione lineare, ribadisce che la durata minima triennale non è un principio generale dell’ordinamento, ma una prescrizione specifica applicabile solo agli incarichi di ruolo. Ogni estensione analogica di tale regola agli incarichi a termine sarebbe contraria al principio di legalità, oltre che irragionevole rispetto alla natura fiduciaria dell’istituto.

Va ricordato che la giurisprudenza amministrativa e contabile aveva già manifestato aperture in questo senso. Il Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 1497 del 2022, aveva sottolineato che “gli incarichi a tempo determinato ex art. 110 TUEL si configurano come rapporti fiduciari a carattere eccezionale e derogatorio, rispetto ai quali la durata è rimessa alla valutazione discrezionale dell’ente, purché non eccedente quella del mandato elettivo”. Analogo indirizzo era stato espresso dalla Corte dei conti, Sez. Reg. controllo Lombardia, delibera n. 61/2023, che aveva richiamato la necessità di “adeguare la durata dell’incarico alle esigenze organizzative e al principio di buon andamento, senza automatismi temporali”.

La novità della sentenza 13641/2025 consiste nel rendere questo orientamento pienamente vincolante sul piano giuslavoristico, superando la precedente giurisprudenza della stessa Cassazione che, con la sentenza n. 478/2014, aveva imposto una rigida omogeneità temporale tra incarichi di ruolo e incarichi fiduciari. Allora, infatti, la Corte aveva ritenuto che la ratio di garanzia dell’articolo 19, comma 2, dovesse valere anche per i rapporti instaurati ai sensi dell’articolo 110 TUEL, per evitare la precarizzazione della dirigenza pubblica.

L’inversione del 2025 riflette una diversa visione dell’equilibrio tra stabilità e responsabilità. Oggi la Corte riconosce che la garanzia di indipendenza della dirigenza non si ottiene imponendo durate minime uniformi, ma assicurando la distinzione tra ruoli professionali e incarichi fiduciari. La stabilità si tutela per i primi, la flessibilità si ammette per i secondi.

Sul piano operativo, la nuova impostazione impone agli enti locali di rivedere i propri regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, per adeguarli al principio della doppia via. Occorrerà distinguere con chiarezza, nei sistemi di programmazione del fabbisogno e negli schemi di dotazione organica, tra posti dirigenziali di ruolo e posizioni dirigenziali a contratto, prevedendo criteri di conferimento, durata e rinnovo coerenti con la natura giuridica di ciascuno.

Un punto delicato riguarda la responsabilità del RUP e dei dirigenti apicali nella fase di affidamento e gestione degli incarichi ex articolo 110. La flessibilità riconosciuta dalla Cassazione non deve essere intesa come liberalizzazione totale, ma come spostamento dell’accento sul potere motivato e proporzionato. Gli enti dovranno adottare criteri interni che giustifichino la durata degli incarichi, evitando arbitri o utilizzi “a rotazione” che possano eludere il principio di selettività e competenza.

Sotto il profilo finanziario, la pronuncia non modifica i vincoli di spesa né le percentuali massime di dirigenti a contratto (30% per gli enti fino a 100.000 abitanti, 20% per quelli superiori), ma incide sulle modalità di pianificazione. In particolare, la possibilità di conferire incarichi di durata semestrale o annuale consente una gestione più flessibile dei bilanci e dei piani triennali del fabbisogno, evitando rigidità in caso di mutamenti politico-istituzionali o di revisione della macrostruttura.

Tuttavia, la flessibilità deve restare compatibile con i principi di imparzialità e professionalità sanciti dall’articolo 97 della Costituzione. Il carattere fiduciario dell’incarico non può tradursi in una nomina puramente discrezionale: l’articolo 110 impone sempre il ricorso a procedure pubbliche, seppur semplificate, e la valutazione comparativa dei curricula. La motivazione della durata assume così valore centrale come parametro di legittimità.

In prospettiva, la sentenza della Cassazione invita gli enti locali a un cambio di paradigma: la dirigenza pubblica non è un blocco monolitico, ma un sistema a geometria variabile che può combinare stabilità e temporaneità in funzione del risultato. È il principio del “dirigere per obiettivi” che si consolida, in linea con l’articolo 5 del d.lgs. 165/2001 e con l’articolo 6 del d.lgs. 36/2023, che valorizzano la capacità gestionale e la responsabilità per risultati.

Ciò detto, la decisione non è esente da criticità. In primo luogo, il venir meno del vincolo minimo triennale potrebbe accentuare la politicizzazione degli incarichi dirigenziali, soprattutto nei comuni di minori dimensioni, dove la struttura organizzativa è spesso più permeabile all’indirizzo politico. La durata ridotta può tradursi in una minore autonomia decisionale dei dirigenti e in un indebolimento della continuità amministrativa.

Inoltre, la sentenza non chiarisce compiutamente il coordinamento tra durata dell’incarico e regime di valutazione della performance. Poiché il ciclo di valutazione è annuale ma gli obiettivi dirigenziali hanno spesso orizzonti pluriennali, incarichi di durata inferiore a un anno rischiano di svuotare di significato il principio di responsabilità per risultati.

Un’altra questione riguarda i rinnovi e le proroghe. La Corte riconosce la legittimità degli incarichi inferiori a tre anni, ma non affronta direttamente il tema della loro reiterazione. Si pone quindi il problema se più incarichi brevi, conferiti in successione, possano configurare un abuso o un’elusione della disciplina sul lavoro a termine. In assenza di indicazioni specifiche, occorrerà richiamare i principi generali del d.lgs. 165/2001, che impongono una motivazione puntuale e la verifica dell’effettiva temporaneità delle esigenze.

Da un punto di vista accademico, la pronuncia della Cassazione riflette un cambiamento di paradigma più ampio nella concezione della dirigenza pubblica. Si passa da una visione statica, centrata sulla durata e sulla posizione, a una dinamica, in cui la funzione dirigenziale è misurata sui risultati e sull’efficacia amministrativa. In questa logica, la durata diventa una variabile funzionale e non un dogma di garanzia.

Sotto il profilo delle prospettive evolutive, sarebbe auspicabile un intervento legislativo o regolamentare che codifichi il principio della “doppia via” riconosciuto dalla Cassazione, delineando con maggiore precisione criteri di conferimento, rinnovo e cessazione degli incarichi fiduciari. Una regolazione più dettagliata consentirebbe di evitare discrezionalità eccessive e garantire uniformità applicativa tra gli enti.

Allo stesso tempo, si potrebbe prevedere un sistema di valutazione differenziata per gli incarichi fiduciari, fondato su indicatori di risultato più immediati e misurabili, coerenti con la durata breve. Questo consentirebbe di preservare la logica di accountability senza snaturare la funzione fiduciaria.

Infine, non si può trascurare l’aspetto etico e istituzionale. La “doppia via” della dirigenza non deve tradursi in una divisione tra una burocrazia stabile e una precarizzata, ma in una coesistenza armonica di professionalità e flessibilità. La credibilità della pubblica amministrazione si misura anche nella capacità di coniugare autonomia tecnica e coerenza politica, senza scivolare nella logica dell’avvicendamento continuo.

In conclusione, la sentenza n. 13641/2025 della Cassazione restituisce agli enti locali la piena titolarità della propria organizzazione, liberandoli da un vincolo temporale che non trovava più riscontro né nella prassi né nella logica istituzionale. Essa afferma un principio di buon senso: la durata dell’incarico deve essere proporzionata agli obiettivi da raggiungere, non a un modello astratto di stabilità.

Tuttavia, l’effettivo equilibrio tra flessibilità e indipendenza dipenderà dalla capacità delle amministrazioni di utilizzare la nuova libertà in modo responsabile e trasparente. La flessibilità senza motivazione è arbitrio; la flessibilità motivata è governo. E, per chi amministra, questa differenza segna la distanza tra discrezionalità e abuso, tra autonomia organizzativa e cattiva amministrazione.

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