Non chiamatela impunità: lo “scudo erariale”

Di Giuseppe Vecchio

Nel marasma di decreti-legge che sovrappongono rinvii e deroghe, il recente articolo 1 del D.L. 12 maggio 2025 n. 68 convertito con L. 2 luglio 2025 n. 100, ripropone con una proroga un istituto importante quanto discutibile. In barba al giustizialismo contabile che ha troppo a lungo paralizzato l’azione amministrativa, si proroga infatti fino al 31 dicembre 2025 il cosiddetto “scudo erariale” già previsto dal celebre art. 21, comma 2, del D.L. 76/2020 “Decreto Semplificazioni”.

Cosa significa in concreto? Che fino a fine anno i funzionari pubblici non saranno più colpiti da azioni di responsabilità erariale per colpa grave, ma soltanto per dolo, ossia per azioni volontarie, coscienti e deliberatamente dannose. Il tutto va letto non come una “licenza a sbagliare”, ma come una necessaria decompressione del rischio personale per chi amministra denaro pubblico in un contesto di norme contraddittorie e tempi spesso contingentati.

Non è più tollerabile un sistema in cui il funzionario pubblico è chiamato a “fare presto e bene” ma viene giudicato ex post con il senno di poi, in processi dove il confine tra l’errore tecnico e la colpa grave diventa una trappola. La paura del danno erariale ha generato una pubblica amministrazione pavida, burocratica e refrattaria al rischio, dove firmare un atto è percepito come un potenziale “salto nel vuoto”.

Il legislatore, con questo ennesimo differimento, dimostra che lo scudo non è una sospensione temporanea della responsabilità, ma l’unica via per consentire ai funzionari pubblici di agire, decidere e innovare senza il “fiato sul collo” della Corte dei conti.

Va ricordato, per dovere di onestà, che resta fuori dallo scudo il secondo periodo del comma 2: nei casi di omissione o inerzia, la responsabilità per colpa grave torna a “far capolino”. Una clausola di salvaguardia ragionevole, per evitare che la nuova stagione della fiducia si trasformi in un alibi all’immobilismo.

Ma è evidente il messaggio politico: l’errore, se non doloso, non è più “peccato capitale”. Forse, un primo passo verso una PA finalmente valutata per i risultati e non inchiodata a responsabilità a rischio retroattivo.

Il vero scandalo, semmai, è che per garantire buon senso servano proroghe annuali. Quando capiremo che l’amministrazione pubblica non è un “campo minato” ma un luogo in cui assumersi responsabilità, sarà sempre troppo tardi.

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