Di Luca Leccisotti
La pronuncia del TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 29 ottobre 2025, n. 3353, offre un chiarimento tanto ovvio nella logica del sistema quanto spesso travisato nella pratica quotidiana degli uffici: nell’affidamento diretto non ha alcun senso giuridico parlare di “base d’asta”. Il principio, apparentemente banale, affonda invece le sue radici nel nucleo del nuovo Codice dei contratti pubblici, dove la distinzione tra procedure competitive e affidamenti fiduciari è costruita su un diverso fondamento di legittimità.
La vicenda trae origine da un affidamento effettuato ai sensi dell’articolo 76 del d.lgs. 36/2023, in particolare del comma 2, lettera b), punto 2), che consente la procedura negoziata senza pubblicazione del bando “quando la concorrenza è assente per motivi tecnici”. Il RUP aveva comunque pubblicato un avviso esplorativo, indicando requisiti minimi di fornitura e specifiche tecniche coerenti con le esigenze della stazione appaltante. A seguito dell’esito infruttuoso della ricognizione di mercato, il contratto era stato aggiudicato direttamente all’unico operatore in grado di soddisfare il fabbisogno. La controversia nasceva dalla contestazione, da parte di un operatore escluso, dell’assenza di un atto di “indizione” della procedura e del fatto che il contratto fosse stato stipulato a un importo superiore alla presunta base d’asta indicata nell’avviso esplorativo.
Il TAR ha respinto entrambe le censure, ribadendo un punto cardine: quando il legislatore consente l’affidamento diretto o la procedura negoziata senza bando per assenza di concorrenza, l’amministrazione non è tenuta ad avviare alcuna procedura competitiva, neppure informale. La nozione di “indizione” è, in tali casi, impropria: l’affidamento diretto è un procedimento monofasico in cui il RUP, previa motivazione e verifica della congruità della spesa, procede direttamente alla stipula con l’operatore individuato. Parlare di “indizione” significherebbe introdurre surrettiziamente una competizione che il legislatore ha volutamente escluso.
Ancora più netta è la posizione del Collegio sul tema della base d’asta. La “base d’asta” è un concetto funzionalmente legato alla gara, anche nella forma semplificata o informale: essa rappresenta l’importo massimo su cui gli operatori formulano le offerte, consentendo il confronto concorrenziale e la tutela della par condicio. Dove la competizione manca, la base d’asta perde ogni funzione e diventa un mero riferimento interno. L’articolo 70, comma 4, lettera f) del d.lgs. 36/2023, che vieta le offerte superiori all’importo a base di gara, lo dice espressamente: il legislatore parla di “gara”, e non di affidamento diretto. È dunque evidente che la norma non può essere invocata quando non vi è una pluralità di offerte da comparare.
Il TAR chiarisce che nelle procedure non competitive – come l’affidamento diretto o la negoziata vincolata – la stazione appaltante può concordare liberamente l’importo contrattuale con l’unico operatore idoneo, purché tale importo sia congruo, giustificato e compatibile con le disponibilità finanziarie. L’indicazione di un prezzo di riferimento non vincola l’amministrazione, che può discostarsene laddove la particolare configurazione della prestazione lo giustifichi. In tal senso, la “base d’asta” non costituisce un parametro giuridico ma una mera soglia indicativa, utile solo a fini di programmazione o di verifica della congruità.
Questo orientamento si inserisce in una lettura coerente del nuovo Codice dei contratti pubblici, che distingue chiaramente tra il principio di concorrenza, applicabile alle procedure comparative, e il principio di fiducia, che sorregge l’affidamento diretto. L’articolo 50 del d.lgs. 36/2023, nel disciplinare gli affidamenti sotto soglia, individua l’affidamento diretto come strumento di semplificazione e responsabilizzazione del RUP, non come una micro-gara. Esigere l’indicazione di una base d’asta equivarrebbe a snaturarne la logica, reintroducendo, sotto mentite spoglie, forme di competizione che il legislatore ha voluto superare per ragioni di efficienza e proporzionalità.
L’affidamento diretto, infatti, non è una procedura “ridotta” ma una modalità autonoma di scelta del contraente, fondata sulla valutazione discrezionale e motivata della congruità dell’offerta. Il baricentro si sposta dalla forma alla sostanza: non si tratta di confrontare offerte ma di accertare che la soluzione scelta risponda in modo adeguato al fabbisogno pubblico, nel rispetto dei principi di economicità, efficacia e tempestività. In questa logica, il RUP non deve “bandire” nulla, ma documentare l’assenza di alternative e la congruità economica della proposta.
Dal punto di vista operativo, la sentenza ha implicazioni importanti per gli uffici tecnici e per i dirigenti che firmano gli affidamenti diretti. Inserire una base d’asta in una determina a contrarre o in un avviso esplorativo relativo a un affidamento diretto può generare confusione interpretativa e alimentare contenzioso. Si rischia, in sostanza, di auto-imporre vincoli che la legge non prevede. Meglio distinguere, nei documenti di programmazione e affidamento, tra:
– il valore stimato del contratto, che serve solo a determinare la soglia applicabile e la procedura utilizzabile;
– l’importo contrattuale effettivo, frutto di negoziazione diretta e di valutazione di congruità.
Nel sistema delineato dal d.lgs. 36/2023, l’evoluzione del principio di fiducia comporta che la responsabilità dell’amministrazione non risieda più nella scelta della formula procedurale, ma nella motivazione e nella tracciabilità del processo decisionale. Il RUP deve essere in grado di dimostrare non solo di aver rispettato le soglie e i presupposti di legge, ma di aver scelto la soluzione migliore in rapporto al bisogno concreto. In questa prospettiva, il controllo ex post (contabile e amministrativo) sostituisce la rigidità ex ante delle formalità procedurali.
La decisione del TAR Lombardia, dunque, ha un valore sistemico: ricorda che le categorie giuridiche non possono essere trasposte meccanicamente da un tipo di procedura all’altro. Dove manca la gara, manca la base d’asta, e dove manca la competizione, la legittimità si misura sulla motivazione e non sul ribasso. È una lezione di coerenza che riporta il dibattito sul terreno corretto: quello della responsabilità amministrativa, non del feticismo procedurale.
L’affidamento diretto è, in definitiva, uno strumento di governo della spesa pubblica, non una gara mascherata. Pretendere di applicarvi le categorie proprie della competizione significherebbe svuotarne la funzione e, paradossalmente, indebolire le garanzie di efficienza e rapidità che il nuovo Codice intende rafforzare. Il RUP che motiva, verifica e controlla agisce nel perimetro della legalità sostanziale. Il resto è burocrazia inutile.










