Affidamento diretto e rischio di “gara mascherata”

Codice appalti pubblici

Gli errori che espongono il RUP a responsabilità e risarcimento.

Di Luca Leccisotti

L’affidamento diretto, come ridisegnato dal d.lgs. 36/2023, continua a essere percepito come la forma di acquisizione più semplice, celere ed efficiente dell’azione amministrativa nel mercato, soprattutto per importi contenuti e per esigenze che richiedono rapidità di risposta operativa. Tuttavia, la scelta del legislatore di valorizzare la discrezionalità della stazione appaltante non è sinonimo di arbitrarietà, bensì di responsabilità amministrativa consapevole, che il Responsabile Unico del Progetto deve esercitare nel rispetto rigoroso dei limiti strutturali dell’istituto. La recente sentenza del TAR Sardegna n. 793/2025 rappresenta un campanello d’allarme per tutti i RUP: quando l’affidamento diretto viene “procedimentalizzato”, trasformando un atto negoziale fiduciario in una “piccola gara” senza averne la forma e le garanzie, la stazione appaltante non solo perde i vantaggi della semplificazione, ma si espone a un concreto rischio risarcitorio. Ciò accade perché la discrezionalità diventa vincolo, la libertà di scelta diventa selezione competitiva e gli operatori economici assumono una posizione giuridica differenziata meritevole di tutela giurisdizionale piena, con conseguente risarcimento se la procedura viene condotta in modo non coerente con le regole autoimposte. L’affidamento diretto, insomma, non può essere una gara in incognito: o si segue un percorso competitivo trasparente, oppure si resta fedeli alla natura fiduciaria dell’istituto. Il nuovo Codice ribadisce questa logica con precisione chirurgica, assegnando al RUP un ruolo centrale di valutazione, motivazione e governo dell’attività negoziale, nella consapevolezza che ogni deviazione genera responsabilità.

La definizione normativa è inequivocabile. L’allegato I.1, art. 3, lett. d) del d.lgs. 36/2023 precisa che l’affidamento diretto è «l’affidamento del contratto senza una procedura di gara», nel quale, anche se si interpella più di un operatore, la scelta resta discrezionale e avviene in relazione ai criteri qualitativi e quantitativi dell’art. 50, comma 1, lett. a) e b). È una definizione identitaria. Dice cosa l’affidamento diretto è, e soprattutto cosa non può essere: una procedura competitiva. La giurisprudenza lo conferma: TAR Campania, n. 873/2025 ribadisce che esso è «totalmente svincolato da logiche competitive». Questo non significa esclusione del confronto con il mercato: significa esclusione della comparazione concorrenziale in senso tecnico. Il RUP non è chiamato a scegliere il migliore tra più offerenti, ma a individuare un operatore idoneo a soddisfare un bisogno specifico della stazione appaltante. È un rapporto fiduciario, non una gara.

Ed è qui che si inserisce il problema affrontato dal TAR Sardegna 793/2025. Il caso è emblematico: il RUP aveva strutturato un percorso di selezione di fatto competitivo, invitando più operatori contestualmente e prevedendo criteri di assegnazione, valutazione comparata, scelta sulla base di elementi qualitativi e addirittura esclusione di offerte. In altri termini, era stata costruita una gara, ma chiamata affidamento diretto. La conseguenza giuridica è disarmante nella sua semplicità: se si applicano strumenti e regole della gara, anche in forma embrionale, la stazione appaltante si vincola a rispettare quei criteri. Non può più motivare la decisione con la sola discrezionalità fiduciaria, e soprattutto non può più ignorare i diritti procedurali degli operatori coinvolti, che acquisiscono una posizione giuridica protetta. Viene meno la libertà di scelta che caratterizza l’affidamento diretto, ma non vengono garantite le tutele pubblicistiche tipiche della gara. Il risultato? Una procedura ibrida, illegittima.

Il TAR Sardegna ha definito questa deviazione “procedimentalizzazione”, un termine che fotografa perfettamente il fenomeno: quando il RUP organizza la selezione con modalità concorrenziali, volente o nolente, la trasforma in una micro-gara. E la micro-gara deve rispettare regole: pubblicità, trasparenza, non discriminazione, par condicio, motivazione della valutazione comparativa, composizione imparziale dell’organo valutatore. Nel caso deciso dal giudice sardo vi era addirittura una commissione di valutazione, con dinamiche tipiche della gara pubblica. A questo si è aggiunta un’esclusione, cioè un provvedimento lesivo in piena forma. Una esclusione nell’affidamento diretto è un ossimoro: significa già che non si è più dentro quell’istituto.

Il cuore della decisione del TAR, che i RUP dovrebbero tatuarsi sulla scrivania, è che le regole che si è deciso di applicare volontariamente diventano obblighi giuridici vincolanti. L’amministrazione, optando per una selezione competitiva, perde la libertà fiduciaria. Non può più dire “scelgo questo operatore perché mi fido di lui”: deve spiegare numericamente o parametricamente perché quel punteggio è migliore, perché quella proposta è più conveniente e perché le altre non lo sono. Se non rispetta questi vincoli, l’atto è illegittimo e produce responsabilità. Il giudice sardo lo dice con chiarezza: l’auto-vincolo procedurale genera un affidamento qualificato in capo ai partecipanti, e la sua violazione dà diritto al risarcimento del danno. Ecco il punto dolente e attuale per ogni RUP: il rischio risarcitorio.

Per comprendere fino in fondo il pericolo, occorre chiarire che l’affidamento diretto non è un istituto “facile”. È un istituto diverso. Non semplifica il procedimento riducendone le garanzie; semplifica perché la logica non è competitiva. Si passa da un modello di concorrenzialità formalizzata a un modello di negoziazione fiduciaria. Se però si introduce competizione, l’amministrazione deve garantire i principi di trasparenza e non discriminazione sino alla fine. Questo vale tanto nel caso di invito contestuale quanto in quello di valutazione comparativa di preventivi che il RUP ha chiesto simultaneamente a più operatori. Se il confronto si fonda su criteri oggettivi, allora c’è gara. Il TAR lo riassume con lucidità: non conta come si chiama il procedimento, ma come è effettivamente condotto.

La disciplina del d.lgs. 36/2023 non lascia margini interpretativi per sostenere ibridi procedurali. L’art. 50 conferma che l’affidamento diretto deve rispettare criteri qualitativi e quantitativi, ma non configura un meccanismo competitivo. La discrezionalità attribuita al RUP è piena, ma non arbitraria: deve essere sorretta da motivazione adeguata e dalla verifica della rispondenza al bisogno pubblico. È proprio l’assenza strutturale della concorrenzialità che giustifica l’esclusione delle formalità della gara. Se la stazione appaltante decide di reintrodurre criteri comparativi, rianima l’obbligo di par condicio.

La giurisprudenza amministrativa da anni ammonisce il legislatore e le amministrazioni sul rischio della “piccola evidenza pubblica”, cioè di procedure che, pur non essendo formalmente gare, ne riproducono sostanzialmente gli elementi più pericolosi. Il Consiglio di Stato ha chiarito più volte, per esempio con la sentenza n. 112/2020, che la discrezionalità nel diretto non è mai discrezionalità tecnica, perché non c’è valutazione comparativa: la scelta è relazione tra bisogno pubblico e capacità del singolo operatore. Quando si passa dal “posso affidarmi a te” al “sei migliore degli altri secondo una graduatoria”, la metamorfosi giuridica è compiuta.

Il RUP deve quindi fare attenzione nel gestire l’interpello. La definizione normativa ne chiarisce la natura: l’interpello è attività istruttoria/negoziale asimmetrica, condotta anche con più operatori ma non simultaneamente, con l’obiettivo di verificare se una proposta può soddisfare l’esigenza pubblica. Non è richiesta la presentazione di offerte comparabili tra loro. La valutazione è un atto fiduciario, non competitivo. Il confronto sequenziale è il segno distintivo dell’interpello: si chiama un operatore, si ottiene una proposta, se la proposta non va bene si passa a un altro. Non c’è mai simultaneità. La stazione appaltante resta libera di scegliere, anche sulla base di elementi qualitativi e fiduciali. È qui che molti RUP inciampano: nell’intento di “fare le cose per bene”, introducono criteri di punteggio, griglie di valutazione, requisiti ulteriori, fino a creare un procedimento che ha l’abito della gara pur non avendone le garanzie.

Il TAR Sardegna ricorda che se si fa una gara, anche minima, la discrezionalità è sostituita dalla regola. E se si creano regole, vanno rispettate sino all’ultima riga. Se ad esempio si decide di valutare l’offerta tecnica con criteri qualitativi, occorre nominare un organo imparziale di valutazione, articolare la motivazione del punteggio, garantire la conoscibilità delle modalità di attribuzione dei punteggi. Se si prevede la possibilità di escludere un’offerta, allora si riconosce implicitamente una posizione giuridica differenziata a chi partecipa, con diritto al ricorso contro l’esclusione. Il paradosso è evidente: cercando di introdurre più rigore, si finisce per costruire la base per un contenzioso molto più costoso.

Il risarcimento del danno diventa una conseguenza quasi inevitabile quando il RUP dimentica di essere libero e pensa di essere obbligato a una comparazione. Il danno risarcibile può essere significativo, perché il partecipante è convinto di trovarsi di fronte a una selezione competitiva. Il giudice lo riconosce come concorrente e gli attribuisce il danno da perdita di chance o addirittura il lucro cessante se la sua offerta avrebbe dovuto essere preferita sulla base delle regole autoimposte. Non solo: la responsabilità può traslare anche sul piano erariale, poiché la cattiva gestione della procedura genera un pregiudizio economico per la PA. Il RUP si trova quindi esposto su più fronti.

Sotto il profilo operativo, l’insegnamento è netto: la motivazione nell’affidamento diretto deve sempre essere calibrata sul bisogno, non sulla comparazione. Il legislatore ha voluto semplificare, trasferendo sul RUP un obbligo maggiore di giustificazione della scelta fiduciaria in chiave di risultato. Il principio di fiducia su cui si fonda il nuovo Codice poggia sul presupposto che il RUP conosca il mercato di riferimento, sappia individuare l’operatore più adatto e possa motivare in modo chiaro perché quella soluzione risponde al miglior interesse dell’amministrazione. Se però la motivazione entra nel terreno della competizione tra soggetti, la discrezionalità si autolimita.

Un RUP accorto dovrebbe quindi chiedersi sempre: sto scegliendo un operatore o sto confrontando operatori? Se la risposta è la seconda, l’istituto scelto è sbagliato. E non basta chiamarlo ancora “diretto” per cambiare la sua natura. L’esigenza di trasparenza non si soddisfa con un confronto competitivo, ma con una motivazione forte sulle ragioni della scelta e sulla convenienza della proposta. Se il RUP ritiene utile avere due o tre preventivi per orientarsi, deve mantenere la sequenzialità del contatto e la focalizzazione sull’aderenza della proposta al bisogno, senza introdurre criteri parametrici di valutazione comparata.

Ciò non significa rinunciare alla trasparenza, anzi. Significa attuarla nel modo coerente con l’istituto. La trasparenza nel diretto passa per la tracciabilità digitale della scelta nella PAD, per l’adeguata motivazione nel CIG, per la pubblicità ex post degli incarichi, per il rispetto dei requisiti generali e speciali. La digitalizzazione completa prevista dal nuovo Codice rafforza questi controlli senza snaturare la libertà amministrativa. Il RUP resta il fulcro dell’obbligo di correttezza e concorrenza potenziale: deve evitare favoritismi, non costruire gare parallele.

La riflessione finale che emerge dalla sentenza TAR Sardegna 793/2025 e dall’intero impianto del d.lgs. 36/2023 è che la semplificazione funziona solo se si rispetta la sua logica. Il nuovo Codice non consente più il “quasi gara” come scorciatoia per sentirsi più tutelati: o si sceglie il mercato aperto, con le sue regole stringenti, oppure si sceglie la fiducia operativa e responsabile dell’affidamento diretto. Questo richiede formazione seria del personale e consapevolezza piena del ruolo del RUP. Il legislatore affida a questa figura una responsabilità operativa cruciale: essere garante della legalità sostanziale, senza rifugiarsi in formalismi impropri.

L’evoluzione futura dell’istituto dovrebbe puntare a rafforzare ancora di più la chiarezza operativa, per esempio definendo limiti più puntuali alla richiesta contestuale di preventivi e chiarendo gli indici sintomatici della “gara occulta”, così da evitare interpretazioni divergenti sul territorio nazionale. Si potrebbe ipotizzare l’elaborazione di schemi-tipo che aiutino i RUP a gestire le interlocuzioni con più operatori senza trasformarle in comparazioni concorrenziali. Il rischio da evitare è la proliferazione di mini-rituali competitivi che restituiscono solo complessità e contenzioso. L’equilibrio corretto sta nel rispetto della natura propria dell’affidamento diretto: una scelta amministrativa rapida ma responsabile, discrezionale ma motivata, fiduciaria ma trasparente. È questo il volto moderno del procurement efficiente. Ed è su questo terreno che si gioca la credibilità della riforma.



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