Il settimo giorno non si riposa

Nuovo tassello sull’annosa questione della tutela del riposo settimanale nel pubblico impiego.

Di Giuseppe Vecchio

La sentenza n.r.g. 6133/2025 della Corte di Cassazione offre un nuovo tassello all’annosa questione della tutela del riposo settimanale nel pubblico impiego privatizzato e della sua concreta fruizione nei rapporti di lavoro caratterizzati da turnazioni continue come accade nei servizi fondamentali erogati dai Comuni come la Polizia Locale.

Il caso in questione riguardava un dipendente comunale, custode di impianti sportivi, che per oltre cento giorni aveva prestato attività lavorativa in coincidenza con il giorno destinato al riposo settimanale, senza beneficiare né di un adeguato riposo compensativo né delle maggiorazioni economiche previste dal contratto collettivo nazionale. A fronte di tale situazione, il lavoratore aveva rivendicato il riconoscimento di un danno psico-fisico conseguente al mancato godimento effettivo del riposo.

La Corte, nel rigettare il ricorso, ha ribadito un principio già emerso in altre pronunce recenti: non sussiste, né nella normativa interna né in quella sovranazionale, un obbligo assoluto di fruizione del riposo “al settimo giorno”, ma piuttosto il diritto a un periodo di riposo “ogni sette giorni”. In questo quadro, la presenza di “previsioni legittimanti” quali le clausole contrattuali che assicurano il diritto a un riposo compensativo ovvero a una maggiorazione retributiva esclude la configurabilità di un danno risarcibile in re ipsa.

La decisione si muove dunque in continuità con quell’orientamento volto a ricondurre la tutela del riposo settimanale non tanto a un “principio inderogabile”, quanto a un diritto suscettibile di modulazioni e contemperamenti, purché garantiti strumenti di compensazione.

La Cassazione come spesso accade, sceglie di privilegiare l’aspetto formale della previsione normativa e contrattuale, ma ciò sollecita un interrogativo di fondo: l’esistenza di una clausola compensativa sostanzialmente non applicata dal datore di lavoro può davvero neutralizzare il pregiudizio derivante dalla deprivazione sistematica del riposo? In altri termini, il diritto alla salute e al recupero delle energie psicofisiche espressamente sancito dall’art. 36 Cost. può essere integralmente ricondotto a una questione di “compensi e di turnazioni”, senza considerare l’impatto concreto sulle condizioni di vita del lavoratore? Insomma qual è la linea di confine tra “tutela teorica” del diritto al riposo e la sua effettiva realizzazione?

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