Di Giuseppe Vecchio
Con la sentenza n.r.g. 26977/2025, la Corte di Cassazione si pronuncia sul complesso rapporto tra il reato di calunnia e la responsabilità civile derivante da denunce o querele rivelatesi infondate.
Il caso riguardava un dipendente ministeriale che aveva agito in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di vari provvedimenti datoriali ritenuti illeciti, tra cui una querela per “uso anomalo del badge”. Il procedimento penale si era concluso con la sua assoluzione piena, ma le conseguenze reputazionali e professionali erano state, secondo l’attore, particolarmente gravi.
La Suprema Corte ha precisato che, in assenza degli elementi costitutivi del reato di calunnia di cui all’art. 368 c.p., non può riconoscersi una responsabilità civile per i danni derivanti dalla presentazione di una denuncia o querela che abbia dato avvio a un procedimento penale conclusosi con assoluzione.
In particolare, quando la condotta denunciata integra un reato procedibile d’ufficio, l’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero interrompe il nesso causale tra la denuncia e l’eventuale danno subito dal denunciato o querelato.
Secondo la Corte, la decisione dell’autorità giudiziaria di promuovere l’azione penale costituisce un atto autonomo e intermedio, idoneo a escludere che la denuncia sia causa immediata e diretta del pregiudizio lamentato.
Se i fatti denunciati erano, anche solo astrattamente, tali da giustificare l’intervento dell’autorità giudiziaria, l’eventuale infondatezza dell’accusa non è di per sé sufficiente a fondare una pretesa risarcitoria.
Il confine, sottile ma rilevante, è quello tra la denuncia calunniosa fondata sulla consapevolezza dell’innocenza altrui e la denuncia errata o eccessiva, che resta comunque lecita finché sorretta da un ragionevole convincimento della sussistenza di un illecito.
Nel contesto lavorativo, la decisione assume un significato del tutto particolare.
Essa delimita la possibilità, per il dipendente assolto, di ottenere ristoro per i danni alla propria immagine o carriera quando la segnalazione o la denuncia del datore di lavoro abbia comunque trovato un fondamento oggettivo nella necessità di verifica di fatti potenzialmente rilevanti dal punto di vista penale. La sentenza in questione ribadisce un principio coerente con la tradizione penalistica: solo la consapevole falsità dell’accusa integra la calunnia e, di riflesso, può giustificare un risarcimento.