La Corte Costituzionale blinda la novella legislativa del 2024 ma scaglia un monito al Parlamento: senza una disciplina del lobbying, il confine tra il lecito e il pactum sceleris resta evanescente.
Di Carmine Soldano
Nel crepuscolo di questo anno giudiziario, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 185/2025 depositata in data odierna, appone il proprio sigillo di legittimità sulla riforma del reato di traffico di influenze illecite, salvandola dalla scure della censura costituzionale. Una pronuncia che, ictu oculi, potrebbe apparire come una mera ratifica della volontà politica ma che, a uno sguardo più attento, si rivela un’opera di fine cesello giuridico, ove i Giudici delle Leggi navigano tra gli scogli degli obblighi sovranazionali e il porto sicuro del principio di determinatezza.
- IL CASUS BELLI: L’ECO PANDEMICA E LA QUAESTIO DI LEGITTIMITÀ
La genesi della decisione affonda le radici nelle turbinose vicende dell’emergenza sanitaria. Il Tribunale di Roma, chiamato a giudicare in medias res su una dazione di oltre undici milioni di euro, somma monstre versata quale prezzo di una mediazione presso il Commissario straordinario COVID, si è trovato dinanzi a un’aporia normativa. Infatti, la novella del 2024 ha ridisegnato la fattispecie dell’art. 346-bis c.p. in senso marcatamente restrittivo: la condotta diviene punibile solo qualora la mediazione sia prodromica alla commissione di un reato da parte del pubblico ufficiale. Essendo stato espunto dall’ordinamento l’abuso d’ufficio (il reato fine ipotizzato), l’impalcatura accusatoria crollava inesorabilmente.
Mosso da un doveroso tuziorismo interpretativo, il giudice capitolino ha dunque sollevato il dubbio: tale arretramento della tutela penale non costituisce, forse, un vulnus agli obblighi derivanti dalla Convenzione di Strasburgo, che impone di sanzionare ogni “influenza impropria”?
- LA RATIO DECIDENDI: IL PRIMATO DELLA TASSATIVITÀ
La Consulta, con argomentazioni di cristallina coerenza dogmatica, disattende le doglianze del rimettente. Il fulcro del ragionamento risiede nella vaghezza intrinseca della locuzione sovranazionale “influenza impropria”. In un sistema di diritto penale stricti iuris, non v’è spazio per incriminazioni dai contorni sfumati. La Corte statuisce che appartiene alla discrezionalità del Legislatore (e non al giudice) riempire di contenuto precettivo le clausole generali internazionali.
Ergo, la scelta di ancorare la punibilità alla commissione di un reato specifico non è un tradimento dei patti di Strasburgo, bensì un necessario atto di precisione legislativa, volto a scongiurare quel pernicioso fenomeno di incertezza che lascia il cittadino in balia dell’arbitrio ermeneutico.
- IL MONITO E IL VACUO NORMATIVO SUL LOBBYING
Tuttavia, tra le righe della sentenza, risuona un monito vibrante. La Corte riconosce che l’attuale assetto lascia sguarniti di tutela beni giuridici di rango costituzionale, quali il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione. Il nodo gordiano, osserva il Giudice delle Leggi, risiede nell’assenza, oramai atavica nel nostro ordinamento, di una organica disciplina del lobbying. Senza una lex specialis che tracci il discrimen tra la legittima rappresentanza degli interessi, attività fisiologica in una democrazia pluralista, e l’illecita pressione opaca, il concetto di “influenza illecita” rimarrà sempre avvolto nelle nebbie. Sicché, la Corte invita il Legislatore, per tabulas, a colmare tale lacuna. Soltanto regolamentando la “zona grigia” delle interlocuzioni con il potere pubblico sarà possibile, in un futuro de iure condendo, estendere nuovamente la tutela penale senza incorrere nel vizio di indeterminatezza.
- CONCLUSIONI
In conclusione, resta l’amara consapevolezza che condotte eticamente riprovevoli, ma prive del crisma dell’illiceità penale “tipica”, sfuggono oggi alle maglie della giustizia, in attesa che il Legislatore raccolga il guanto di sfida lanciato dalla Consulta e disciplini, una volta per tutte, le dinamiche di pressione sui decisori pubblici.









