Di Giuseppe Vecchio
È bastata una breve frase, pronunciata nel contesto ristretto e “delicato” della vita carceraria, per riportare al centro del dibattito giuridico uno degli articoli più discussi del nostro Codice Penale. Parole che, seppur inserite nel quotidiano clima di tensione che spesso caratterizza i rapporti tra detenuti e personale penitenziario, sono state ritenute idonee a integrare una fattispecie di reato.
La frase in questione “Se entro domani non vengo trasferito, spacco tutta la cella” potrebbe a prima vista apparire come uno sfogo minaccioso tra i tanti che si consumano nelle relazioni tese e asimmetriche tra chi è privato della libertà personale e chi è incaricato di garantirne la custodia. Tuttavia, secondo la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21238 del 2025 (Sez. VI), tale espressione sarebbe sufficiente a integrare gli estremi del reato previsto dall’art. 336 c.p., ovvero violenza o minaccia a un pubblico ufficiale.
La Suprema Corte ha infatti ritenuto che la frase abbia un contenuto coattivo tale da comprimere la libertà di autodeterminazione dell’agente penitenziario, indipendentemente dalla circostanza che quest’ultimo non avesse competenza diretta in merito ai trasferimenti carcerari. Viene dunque riconosciuto al diritto penale un margine di estensione che consente di sanzionare la minaccia anche laddove essa si configuri come una forma di pressione indiretta, rivolta a un soggetto che non è titolare del potere decisionale, ma potenzialmente in grado di farsi tramite presso chi lo detiene.
Questa impostazione tuttavia solleva interrogativi sull’interpretazione così ampia della norma penale, tale da allontanarsi dal suo scopo originario, che è quello di tutelare l’esercizio imparziale e sereno della funzione pubblica contro condotte effettivamente idonee a coartare la volontà del pubblico ufficiale.
Il caso chiama peraltro in causa alcuni dei principi fondamentali dell’ordinamento penale come il principio di tipicità che impone la corrispondenza tra la condotta e la fattispecie astratta prevista dalla legge o il principio di offensività quale parametro per misurare l’effettiva lesione o messa in pericolo di un bene giuridico.
In definitiva, questo episodio rappresenta un’occasione utile per interrogarsi sul ruolo del diritto penale nei contesti di “forte tensione” come quello carcerario ed invita a riflettere sulla funzione del linguaggio, spesso espressione di disagio più che di reale minaccia, e sulla necessità di bilanciare sicurezza e tutela dei diritti.